Cooperativa Atlantide

CLAUDIO COJANIZ, UN CITTADINO DEL MONDO RESIDENTE IN CALABRIA

Catanzaro Jazz Fest: Claudio Cojaniz, lei è considerato uno dei massimi interpreti del grande T. Monk, in che modo ci si accosta alla musica di un mostro sacro?
Claudio COJANIZ: Alla radio (avevo circa 13 o 14 anni) ho ascoltato Crepuscule with Nellie e non l’ho più lasciata. In me rappresenta la sintesi del Blues: Monk ha dato al Jazz quello che Anton Webern ha dato alla musica cosiddetta “classica”: l’arte del togliere, la sintesi assoluta, cristallina…
CJF: Lei è friulano di nascita e, per la sua attività che la porta in giro per l’Italia e all’estero, può essere considerato un cittadino del mondo. Ha scelto di vivere a Roccella Jonica, sede di uno storico festival jazz, una decisione insolita, soprattutto per un musicista. Quando è maturata questa scelta e perché? Come racconterebbe la nostra regione a chi non la conosce?
COJANIZ: Sono arrivato a Roccella qualche anno fa per suonare al festival: come ci sono entrato ho deciso, d’accordo con la mia compagna, che sarebbe stato il mio posto. Dimensione paesana, una piazza ed un lungo mare intelligenti. Ho cercato di restituire questo incanto nella SiSong, DVD  registrato al festival, dedicato al senatore Sisino Zito, colui che ha intuito il festival stesso e lo sviluppo di Roccella. La Calabria è certo un posto dimenticato: qui sta la sua debolezza ma anche la sua forza. Certi ritardi le permettono di custodire nel cuore dei suoi abitanti tradizioni e sentimenti antichi ed umani.
CJF: La musica e l’arte non hanno confini, uniscono mondi spesso lontani e, soprattutto nel jazz, creano condivisione ed empatia tra i musicisti, attraverso l’improvvisazione. Il motto del CJF recita: il jazz sta all’improvvisazione come la democrazia sta alla libertà, cosa pensa di questa “proporzione”?
COJANIZ: Ho un’idea esistenzialista della vita. Improvvisare assieme significa aprirsi all’Altro, accoglierne le differenze e lasciarsi stimolare: così facendo scopriamo cose che non conoscevamo di noi stessi. Questo ci smuove dalle nostre sicurezze, spesso effimero rifugio dalla paura. Per realizzare una vera Democrazia dobbiamo per prima cosa quindi aver un sentimento di inclusione verso il nuovo, verso l’Altro: non avendo paura, allarghiamo il volume della coscienza. Il jazz infatti è in primis inclusivo, non esclude nulla a priori; orecchie sempre aperte, accoglienti, in perenne ascolto cosmico, lasciandoci meravigliare. E’ un gioco serio, come seri sono i bambini quando giocano. Direi che il jazz è musica di ferite mai risolte, per lo stesso fatto di essere in vita, una vita che procedendo verso l’estinzione ci appare insensata: l’Arte insieme all’Amore cercano di darle un significato, visto che per se stessa non ce l’ha.
CJF: Perché secondo lei pur se molti bravi musicisti suonano jazz non si riesce a far diventare questo genere popolare tra i più giovani? Cosa sarebbe necessario fare per attrarre le nuove generazioni?
COJANIZ: La musica veicola pensiero. La sua domanda prevede una fuoriuscita rivoluzionaria da questo sistema che ci vuole allineati, capaci di ingoiare un unico sapore e parlati da una lingua povera, utile solo per dare e ricevere degli ordini. La libertà implica uno studio continuo ed appassionato, la responsabilità intera per la propria vita e non la delega ad altri. La nostra generazione è forse l’ultima ad essere cresciuta con lo spazio aperto e coi libri, con un’idea di vita come viaggio avventuroso. Se non hai una storia da raccontare è meglio che taci. Il resto è tecnica (vuoto) o consumo (asservimento). Per me, al contrario, suonare è un totale evento d’amore. Questo sistema ci sta riducendo a Homo Consumens.
CJF: Questo suo progetto in trio prende spunto da una esperienza vissuta in Africa, come nasce e quale sarà il percorso musicale del concerto?
COJANIZ: Si tratta di un viaggio tra evocazioni d’Africa, della grande e variegata cultura africana. Il lavoro è scritto da me, ma si tratta di annotazioni prese in loco e poi sviluppate con un mio stile. Mi sono accostato a questo con rispetto e devozione. Siamo figli d’Africa, almeno noi occidentali, e  saremo Africa, o non saremo più.

Produzione: Atlantide Soc. coop. a r.l. – Direttore artistico: Francesco Panaro
Info: atlantide@atlantidenews.it – 3405778734 (Francesco Panaro) – 3389595821 (Roberta Giuditta)

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